"Formazione del cacciatore di selezione: tutela della fauna o business mascherato?"

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In questi ultimi anni, le associazioni venatorie si sono mobilitate con grande solerzia per promuovere corsi di formazione destinati a selecontrollori, coadiutori e operatori faunistici. A una prima occhiata, potrebbe sembrare un passo avanti nella gestione della fauna selvatica, uno strumento moderno ed efficiente per rispondere all’emergenza ungulati e ai crescenti danni all’agricoltura. Ma è davvero così?

Dietro l’apparente volontà formativa, si sta consolidando un sistema che somiglia sempre di più a una filiera economica parallela, dove la conservazione della fauna diventa pretesto per alimentare il mercato di armi rigate, ottiche da tiro, visori termici e accessori sempre più costosi. Un favore, neanche troppo velato, al comparto armiero. In molti casi, i corsi stessi sembrano costruiti più per vendere strumenti che per trasmettere competenze reali o rispondere a una pianificazione faunistica coerente.

Non si può tacere il fatto che questa deriva stia allontanando la caccia dalla sua essenza. La cultura venatoria, quella autentica, si fonda su valori ben più solidi: il rispetto del selvatico, la conoscenza del territorio, la trasmissione di saperi antichi e l’etica del prelievo responsabile. Oggi, invece, sembra che senza carabina e visore notturno non si possa più “essere utili”. Il rischio è che la caccia diventi una specializzazione tecnica, svuotata di ogni legame con la tradizione rurale, gestita da pochi e giustificata solo dal bisogno di “fare numero” negli abbattimenti.

La caccia di selezione, se svincolata da un vero progetto di equilibrio ecologico, non è una soluzione: è un alibi. Senza investimenti nella prevenzione dei danni, nella gestione attiva degli habitat, nel coinvolgimento degli agricoltori e nella responsabilizzazione del mondo venatorio, ci ritroveremo semplicemente con più cacciatori con carabina, ma meno fiducia da parte dell’opinione pubblica.

Chi ama davvero la caccia non può rimanere in silenzio. Dobbiamo pretendere che la formazione serva a formare coscienze, non solo a creare nuove occasioni di consumo. Dobbiamo tornare a parlare di etica venatoria come fondamento e non come accessorio. E soprattutto, dobbiamo ricordare che il futuro della caccia non può essere scritto da chi la usa come strumento di marketing, ma da chi la vive come parte integrante dell’equilibrio fra uomo e natura.

palombe.it – Vasco Feligetti